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DEL

CHIHAPAURA

DRA
MA
TURG?

Simona Gonella è regista, pedagoga e drammaturg/a. Muove i suoi primi passi con il Teatro Settimo di Torino e con il Piccolo Teatro di Milano (è stata membro del Circolo dei Registi Europei dell'Unione dei Teatri d'Europa). Ha diretto spettacoli al Teatro Nazionale di Timisoara, alla Royal Shakespeare Company di Stratford, al Chichester Theatre Festival, al GBS Theatre di Londra e collabora come dramaturg con la compagnia svizzera Trickster- p (.H.G., B., Twilight, Nelttles) e con Luganoinscena e Carmelo Rifici, fra gli altri. E’ artista associato della compagnia inglese New Public.
In Italia firma e adatta diversi lavori soprattutto di nuova drammaturgia (testi di Cesare Lievi, Mariano Dammacco, Sarah Kane, Tommaso Pincio, Simona Vinci, Michele Santeramo), di teatro civile con Roberta Biagiarelli, e teatro per l’infanzia (adattamenti da Stevenson, Barrie, Lewis).
Dal 2007 al 2011 è stata Direttore Artistico del Cerchio di gesso / Oda Teatro di Foggia.
Svolge con continuità attività di docente e formatore (fra gli altri, alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano e alla RADA - Royal Academy of Dramatic Arts di Londra per la quale cura diversi progetti di formazione soprattutto nell’area del devised theatre).

Copia de Chi ha paura del dramaturg - POST IG (2).png

Che cos'è la drammaturgia?

Premetto che io per la maggior parte del tempo faccio regia oppure mi occupo di co-creazione e devising in un'altro paese, in Inghilterra. Il mio approccio con la drammaturgia è un approccio di “adattamento”: per me la drammaturgia è qualcosa che adatta dei testi, solitamente letterari. Per cui, ogni volta che io mi approccio ad un lavoro che ha a che fare con la drammaturgia, lo faccio da dramaturg.

Per me, la drammaturgia è realmente quello che è nel suo etimo: l'organizzazione dell'azione. 

E’ un tipo di rapporto con la drammaturgia molto “carnale”. E quando dico “carnale” intendo dire che io non concepisco un testo se questo testo non è strutturato in una maniera da farmi capire che cosa accade. Il che non vuol dire ovviamente una saturazione dell'azione fisica, ma semplicemente una chiarezza su quello che accade sia fisicamente, che emotivamente, che razionalmente, che universalmente. 

Per me, la drammaturgia è qualcosa che muove, che sposta. Un po’ come le emozioni. Una buona drammaturgia per me è un testo che riesce a “spostare” sia l'artista che la prende in carico, sia l'utilizzatore finale. Chiamiamolo così, perché “spettatore” è una parola molto, molto ampia. Se  un testo non muove, se non va da qualche parte o non mi fa andare da qualche parte, tendenzialmente, non entra nei miei desideri registici, oppure nel mondo di quelli che, per la mia sensibilità, io considero dei buoni testi. 

Per me è un po’ questo la drammaturgia.

Tu hai lavorato sia come drammaturga che come dramaturg, sia in Italia che in Inghilterra?

In Inghilterra ho avuto un ruolo simile al dramaturg all’interno di progetti di co-creazione, ovvero tutta quell'area in cui si esplorano dei temi con un gruppo di artisti e poi questo gruppo crea una propria visione su questi temi. Dal momento che il ruolo di regista nella co-creazione è molto arretrato ed è più un ruolo di compositore (quindi di editing), io metto a frutto le mie competenze come dramaturg per organizzare questo materiale secondo criteri che abbiano una logica e che rispondano anche ai bisogni del gruppo di creativi. In Inghilterra faccio questo. 

In Italia, invece, ho lavorato come dramaturg per Carmelo Rifici e per Andrea De Rosa. Ma ho lavorato come dramaturg soprattutto in Svizzera, per la compagnia Trickster-p, per spettacoli ad alta densità performativa, sostanzialmente senza attori.

In tutti i miei lavori di dramaturg, mi colloco in una funzione di interposizione tra il materiale (e per materiale intendo anche il lavoro dell'attore) e il regista o il gruppo di creativi. Quando ho questo ruolo, cerco di neutralizzare la mia anima più registica, nel senso che non necessariamente debbo aderire a quello che viene fatto, tranne che politicamente: non aderisco a lavori che non corrispondono ai miei principi etici o politici. Né necessariamente mi deve piacere quello che viene fatto, perché non è una questione di gusto. 

Gli artisti, solitamente, usano la figura del dramaturg come interposizione, come filtro. Parlano con me perché io li scomodi. Un regista che vuole un dramaturg è un regista che vuole essere scomodato, che vuole essere sfidato. 

Personalmente, non lavoro come dramaturg occupandomi di studiare fonti e poi spiegare agli attori la vita, la morte ed i miracoli. Non è una cosa che mi interessa. Quello che mi risuona è avere questo ruolo un po' di terzo incomodo, che chiede: cosa volete fare, dove siamo, dove siamo andati avanti? 

È molto importante, come insegno ai miei allievi dramaturg, avere molto chiaro il proprio ruolo e i propri confini. Ed è un lavoro emotivo molto pesante, perché ovviamente ci sono delle volte che vorresti semplicemente dire: “Questa roba non funziona!”. Ma questo non è utile. Non c'è utilità nell'esprimere giudizi, c'è utilità nel far funzionare l'intelligenza collettiva. Listen, share, create: sono, secondo me, i tre step di un buon lavoro di dramaturg. 

In Inghilterra, quindi, hai svolto un lavoro simile a quello che svolgi come dramaturg in Italia ed in Svizzera, ma non avendo un regista di riferimento? Com’è la situazione rispetto al ruolo del dramaturg in Inghilterra? 

Il lavoro che svolgo in Inghilterra ha un po’ una doppia natura: regista-dramaturg.  Ma la parola dramaturg non è mai lì, forse semplicemente perché gli inglesi hanno molta resistenza verso questa figura. Credo sia perché gli anglosassoni in generale hanno un rapporto col testo molto più “sulla pagina”.  In Inghilterra, molti progetti sono testuali, quindi c'è l'adattamento, e questo in qualche maniera leva un po’ la necessità del dramaturg. I progetti che hanno una figura più di dramaturg in Inghilterra sono tutti quei progetti che hanno in qualche maniera un'eco più europea.

Per lo più, quindi, come dicevo, lavoro come regista. Ma faccio tanti lavori di co-creazione di devising. E in questi casi, comunque, la mia parte dramaturg deve essere sempre sveglia, per ricordarmi che io sono lì per far funzionare qualcosa che ha creato qualcun altro ed è fondamentale che io non abbia pregiudizi. Magari, alcune scene non le avrei mai fatte da unica regista, ma se hanno una loro logica all'interno del progetto di creazione collettiva quindi devono stare.

In Inghilterra faccio anche l’insegnante e ai miei allievi insegno il lavoro del dramaturg. Per esempio, lavoriamo tanto sul feedback. Il feedback è la base del ruolo del dramaturg. La cosa che devi saper far meglio come dramaturg è dare feedback. I miei allievi imparano tutti a pulire il linguaggio, sfuggendo dal giudizio “mi piace, non mi piace, bello, brutto”.

Cosa ne pensi, come dramaturg, della definizione “accompagnamento artistico”? Ti riconosci?

Allora, io credo che se vogliamo affermare il nostro ruolo dobbiamo cercare di essere molto duri e puri sul nome, perché è il nome che genera il ruolo. 

L'accompagnamento artistico, secondo me, ha più a che fare con una figura che accompagna il gruppo e si occupa di “guardare”. Ma non ha un principio di propria autorevolezza. 

L'autorevolezza del dramaturg sta nella capacità di fornire una sponda al regista e alla compagnia. Ed è una sponda faticosa perché quando il dramaturg dice “questo non torna”, non sta solamente accompagnando. Il dramaturg è un ruolo molto preciso: è la persona che si incarica di aumentare la complessità, e così rende l’arte più complessa. 

“Accompagnare” mi suona come stare vicino a qualcuno che non ce la fa da solo. Invece non è così. Il dramaturg non serve a chi non ce la fa da solo, il dramaturg serve a chi vuole aumentare la propria autorevolezza artistica e sperimentare qualcosa di più complesso, in territori sconosciuti.

Secondo te che rapporto esiste tra dramaturg e pubblico?

Allora, nel mio caso, nessuno direttamente. Ma una delle cose che di solito il dramaturg fa è porre degli “warning”. Ovvero, ad esempio, una delle frasi che spesso utilizzo è: “In questo momento ti sto parlando come membro del pubblico”. Quando, magari, ritengo che il pezzo che si sta esaminando possa avere il rischio di non essere chiaro. E posso fare la stessa cosa parlando come addetto al lavoro teatrale, quando, ad esempio, ritengo che il pezzo che si sta esaminando tirerà su una bella critica. Cerco di non farlo mai come Simona, ma se lo devo fare è importante la linguistica, come dicevo prima: “Come Simona, per la mia sensibilità, questa linea che stai prendendo è una linea troppo criptica”. 

Se parliamo di dramaturg come colui che si incarica proprio dal pubblico, però, entriamo nel merito del contesto americano o tedesco, che ha funzione all'interno delle istituzioni.

Nel contesto teatrale italiano, c’è spesso malcontento rispetto a quanto e a quale pubblico viene a teatro. In Inghilterra, com'è la situazione? Ti risuona? Se sì, su cosa non si sta lavorando?

Non possiamo comparare culture letterarie completamente diverse. L'Inghilterra ha una storia di letteratura teatrale immensa e un rapporto col teatro completamente diverso da quello italiano. Ad esempio, in Inghilterra gli studenti del liceo hanno una materia che si chiama Drama. 

La nostra non è una cultura che ha favorito lo svilupparsi di una letteratura teatrale. In Italia, non si possono produrre molti testi perché i testi non vengono messi in scena. Agli inglesi piacciono le novità, a noi le novità fanno paura. Perché andare a vedere qualcuno che non conosciamo e spendere soldi? 

I teatri inglesi, inoltre, sono giganteschi e vanno avanti da cent'anni, proponendo qualcosa che per noi italiani è orrendo, ovvero l'intrattenimento. Per gli artisti italiani il teatro commerciale è una schifezza, poi, però, invidiamo gli inglesi perché tanta gente va a teatro… 

E ancora: gli inglesi sono laici, noi siamo religiosi. Siamo religiosi perché il teatro è ancora una questione di classe; solo una certa classe intellettuale va a teatro. 

Personalmente, io credo che il pubblico in Italia non abbia nessun problema ad accettare cose diverse. Semplicemente, bisognerebbe lavorare su più fronti, cambiare alcuni parametri. Ad esempio, non possiamo cambiare il parametro scolastico perché, purtroppo, è molto difficile inserire il teatro come materia, come è in Inghilterra. Non possiamo pensare di cambiare la nostra cultura così radicalmente, ma, dall’altra parte, abbiamo un teatro molto vitale dal punto di vista della regia. Gli inglesi, invece, stanno pagando uno scotto molto forte per il fatto di essere molto text-oriented, è molto più difficile per loro rivisitare i classici in maniera originale poiché i registi appartengono un po’ alla vecchia scuola. In Inghilterra, infatti, i  registi vengono tutti dalle università, non c'è una vera e propria scuola di regia, per cui c’è molto accademismo. 

Oppure, la nostra è una cultura teatrale orientata alle tournée. Gli inglesi non hanno la cultura della tournée, gli inglesi hanno i “grandi teatri” e se le persone vogliono vedere uno spettacolo devono farsi il weekend a Londra, per dire. 

Questo per dire che noi paghiamo sì, uno scotto, ma loro ne pagano un'altro. 

Rispetto alla drammaturgia, in Italia sicuramente la drammaturgia contemporanea fa fatica, perché i teatri non rischiano e non c'è ancora una cultura di sostegno. Ma alcuni autori sono molto più rappresentati rispetto a trent'anni, vent'anni fa. Stiamo andando da qualche parte e io mi sono un po’ stancata di dire che “siamo messi male”. 

Secondo te, se fosse più presente la figura e il ruolo del dramaturg nel contesto teatrale italiano, cosa cambierebbe?

Secondo me, intanto, i progetti di regia potrebbero essere progetti capaci di avere più ricadute. 

Avere un dramaturg vuol dire, anzitutto, evitare la superficialità. E, in questi tempi, la superficialità dovrebbe essere bandita. Dopodiché, significa avere una figura che può far entrare maggiormente in sintonia l’artista con il suo pubblico di riferimento. Se vogliamo usare il verbo “accompagnare”, significa avere una persona che accompagna il regista, che può confrontarsi e avere dei feedback da questa figura e grazie alla quale il regista riuscirebbe ad aprire la testa e gli orizzonti, non limitandosi a mettere in scena un testo ma a dar vita a un progetto.

C'è drammaturgia fuori dal teatro? 

Fuori dal teatro c'è solo drammaturgia. Tutta la vita è drammaturgia. 

Senza drammaturgia non c'è relazione e noi passiamo tutta la vita a relazionarci. La drammaturgia è l’organizzatrice dell’azione, lo sviluppo: inizio, sviluppo, fine. Noi organizziamo continuamente.

La drammaturgia fuori dal teatro è in tutti quei momenti collettivi, o individuali nella collettività, che possono portare un beneficio relazionale. Se veramente crediamo nelle relazioni umane come l'unica maniera possibile per salvarci dal disastro e dal deserto etico e politico, l'unica cosa che possiamo fare è  essere dei drammaturghi ogni giorno.La drammaturgia è la base della nostra esistenza.  Senza drammaturgia noi siamo morti.

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