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DEL

CHIHAPAURA

DRA
MA
TURG?

Jean-Daniel Magnin è un drammaturgo franco-svizzero. Le sue opere teatrali sono state rappresentate al Théâtre du Rond-Point, alla Comédie-Française, all'In del Festival di Avignone , al Théâtre de la Bastille, alle opere di Massy e Lille, in Quebec, Ginevra, Praga, Bucarest e Ungheria.

Nel 2000, è stato tra coloro che hanno riunito diversi autori teatrali francesi per fondare gli Scrittori Teatrali Associati (EAT), la prima associazione di drammaturghi in Francia. Con Jean-Michel Ribes, primo presidente di questa associazione, scrive il progetto per il nuovo Théâtre du Rond-Point, un teatro dedicato agli autori viventi, di cui è stato prima segretario generale e poi direttore letterario.

Copia de Chi ha paura del dramaturg - POST IG (1).png

La prima domanda è, “semplicemente”, cos'è la drammaturgia?

La drammaturgia è come organizzare una festa. Se voglio organizzare una festa o una cena, che è un grande piacere della vita,  devo lavorare molto per avere tutto a posto: cibo, tavola, addobbi… Dopo,  arrivano le persone e abbiamo cinque o sei ore in cui ne godiamo insieme. La preparazione della cena è la drammaturgia del palcoscenico.

La drammaturgia permette di stabilire un tempo condiviso con gli altri, con il pubblico. Allo stesso tempo, è una responsabilità terribile, perché c'è il pericolo di essere ridicolo. Il drammaturgo è colui che deve aiutare la squadra a lanciare il razzo nel cielo senza che ci sia un'esplosione, direi.

La drammaturgia, secondo te, è strumento solo del drammaturgo?

Per me “drammaturgia” significa anche messinscena del corpo dell'attore e messinscena della mente del pubblico.

Da una parte c’è la lingua, il ritmo, i suoni… questo è, in parte,  il mestiere dell’attore. Dall’altra, la costruzione drammatica che appartiene  alla mente umana: se una cosa succede una volta è un evento; se succede due volte è una ripetizione; ma se la terza volta ricomincia con una modifica, c'è un avvenimento, un evento comico, una sorpresa. Quello è già drammaturgia ed è una cosa che accade fisicamente.

Io penso che uno spettacolo che ha un effetto forte su di noi ha una sua costruzione drammatica  che è riuscita a raggiungere tutte le possibilità del discorso che voleva offrire.

Quindi, potenzialmente la drammaturgia è tutto quello che ci permette di creare una narrazione.

Ti è capitato di lavorare come accompagnatore, magari di un processo artistico?

Lo sono stato per due ore! Ma no, non ce la facevo, perché avevo delle idee ogni due minuti e non lasciavo lavorare il regista. Ma ho partecipato in diversi progetti collettivi. E poi con un gruppo guidato da un grande drammaturgo francese, Jean Michel Ribes, siamo riusciti a prendere in gestione un grandissimo teatro sui Champs Elysées, per vent'anni, fino all'anno scorso. Abbiamo creato un’associazione di autori che abbiamo chiamato “Gli scrittori associati del teatro”. L' abbiamo chiamata così perché  tutti eravamo d’accordo che la parola  “autore” non ci piacesse, perché c'è un'idea un po’ troppo romantica dell'autore, come colui che “crea dei mondi”.

Secondo te, avrebbe senso inserire o avere più presente una figura che accompagni il processo artistico?

Se la squadra è curiosa e il regista è curioso, è un lavoro che si fa insieme. Non sono sicuro che debba esserci una persona dedicata.

Adesso, per esempio, ci sono delle figure di intellettuali che hanno i piedi troppo poco per terra. Si parla troppo e il discorso rimane troppo legato alle idee. A volte, lo scambio è molto più veloce se fatto tra un attore e regista.

Comunque, tutte le persone che possano accrescere le idee sono preziose. 

Secondo te, in Francia, la figura del regista è educata a pensare drammaturgicamente?

Direi di no. Non c'è una vera e propria tradizione di questo genere di insegnamento in Francia. Tranne che negli ultimi quindici o vent'anni, alcune scuole nazionali di teatro hanno aperto corsi di regia, e anche seminari aperti a giovani drammaturghi. Ma si tratta di una minoranza. Tutto quello che si insegna del campo teatrale lo si insegna all’Università, che, possiamo dire, è più una “scuola dello spettatore”. L’indirizzo è più quello della critica teatrale, mi sembra. Ma almeno ci sono posti di discussione, d’incontro, che è molto importante, perché per tanti non ci sono.

Per quanto riguarda la figura del drammaturgo, invece, questo che tipo di ruolo ha in Francia?

Tradizionalmente in Francia, nell’Ottocento, si presentavano a teatro soprattutto delle pièce contemporanee, popolari. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il panorama culturale era talmente distrutto che ne è nato un forte cambiamento: i teatri pubblici hanno iniziato a programmare soltanto classici, ignorando gli autori contemporanei e privilegiando la supremazia del regista.

Negli anni Cinquanta, è nei piccoli teatri privati che nascono autori come Beckett e Ionesco.

E poi la figura del drammaturgo ha sofferto con la scomparsa delle troupes permanenti a favore del lavoro intermittente. Credo che una compagnia permanente tenderà a ricorrere gli scrittori, oggi che non ci sono praticamente più grandi compagnie di attori in Francia, a parte la Comédie-Française e il Théâtre de Soleil. Tutto questo per dire che dopo la guerra è sparita dal panorama teatrale francese la figura del drammaturgo.

Dunque, in Francia, vent'anni fa, era inevitabile pensare che la figura più importante dentro all'ambiente teatrale fosse il regista. Infatti, era lui a decidere su quale materiale lavorare e come.  Soprattutto, si preferivano le pièce del passato, i capolavori, Shakespeare, ecc… e si credeva che in quel modo si potesse parlare di contemporaneità.  La drammaturgia era utilizzata per estrapolare il senso profondo dell’opera e collegarlo con una situazione dell'attualità, con una problematica concreta. Un esempio bellissimo è stato il Tartufo di Molière che il Theatre du Soleil ha rifatto con Ariane Mnouchkine, il cui contesto diventava la seconda guerra civile di Algeria.

Con questo sistema sembrava che il teatro,  per essere serio e per esprimere un messaggio, dovesse passare dagli “antichi”. Senza riuscire a dire le cose direttamente.

C’è stato in quel momento la volontà di ricercare un altro modo di fare teatro, un altro modo di raccontare le cose.  Io e un gruppo di amici,  per guadagnare un po’ di soldi, avevamo iniziato a lavorare nel cinema e abbiamo studiato il punto di vista di Hollywood. I film che vengono da Hollywood, secondo me, sono come il pesce: lo scheletro, la lisca, è la stessa: plot, turning point... Il cinema stava lavorando da anni sulla poetica di Aristotele, e noi nel teatro: niente. Chi lavorava nel teatro cercava di fare arte “pura”, nella forma, nella lingua, ecc… ma niente struttura narrativa.  Il nostro piccolo viaggio nella sceneggiatura è stato molto utile per scrivere teatro, perché ci ha permesso di essere più consapevoli. Il cinema ci aveva dato un modo di pensare logico e sequenziale… Quando si aprono i rubinetti si devono chiudere alla fine, questo è il punto.

Comunque, oggigiorno la situazione è molto precaria. Solo due, tre autori per ogni generazione possono vivere di questo. Ci sono stati tre o quattro tentativi di ri-aggruppamenti di scrittori di teatro con l’obiettivo di cambiare la situazione, e dopo diversi fallimenti ci siamo riusciti, vent'anni fa. E da allora, siamo riusciti a tornare a essere presenti dentro del teatro, “a tornare a casa”. Prima c’erano meno dell’8% di opere scritte per autori contemporanei a Parigi, oggi sono di più.

Spesso, all’interno del contesto teatrale italiano, ci si lamenta della gente che va poco a teatro. Sotto questo punto di vista, com’è la situazione in Francia?

Io ho viaggiato molto in Russia, in Giappone, in Sud America… in teatro, in tutto il mondo,  si incontra sempre lo stesso pubblico: i borghesi che stanno invecchiando e i giovani studenti.

Come si fa a cambiare questa situazione? Magari con un cambio di direzione artistica che riesca  a parlare con la sua generazione?

Come drammaturgo, comunque, penso una cosa: è molto interessante che Steve Jobs  quando deve presentare il primo iPhone, ha bisogno di venire sul palcoscenico di un teatro per farlo. Elon Musk per presentare la starship ha bisogno di venire in un teatro a presentarlo... Se il teatro è morto, allora perché si ha ancora bisogno del teatro? Vuol dire che  è un dispositivo essenziale. Come hanno fatto loro, dobbiamo trovare un modo di “aprirlo” a nuove esperienze.

Il teatro è una cosa molto vecchia e molto preziosa. Sicuramente, il lavoro del drammaturgo è essenziale per questo: deve avere chiaro a chi stiamo parlando e di cosa.

Poi, bisogna trovare nuove idee… per esempio, ho un amico, un genio della magia, che si chiama Yann Fish. Lui aveva questa idea: chiedere l'indirizzo di alcuni spettatori e poi dormire per due settimane sotto la loro porta. Non credo che ci abbia provato davvero, ma dimostra che si può trovare il teatro dove meno ce lo si aspetta...

Cosa ne pensi, invece, del panorama teatrale italiano?

Per me l'Italia, sia politicamente che socialmente, è un laboratorio incredibile. Anche se con questo cambiamento politico a destra… cosa succederà?

A livello teatrale, ci sono personaggi ed  eventi avanguardisti per noi francesi e, allo stesso tempo,  ci sono spettacoli con cui ho l'impressione di tornare negli anni ‘70. Comunque, le cose più belle cose che ho visto, spesso, sono italiane. Sicuramente perché siete coraggiosi. E avete di tutto: le persone più brillanti e questa tradizione… una cosa vecchia, tradizionale, fortissima.

Soprattutto sono molto ammirato dal fatto che i teatranti in Italia non hanno una protezione sociale come gli artisti in Francia, non “mangiano” dalla mano dello Stato come in Francia. Devono campare per conto proprio. Questo, anche, mostra una grande forza.

C’è drammaturgia fuori dal teatro?

Fuori dal teatro? Permanentemente. Nella politica, nel modo in cui tutto è raccontato. Cantami una canzone e avrai drammaturgia.

È incredibile che adesso ci siano delle agenzie che lavorano sulla story, sulla drammaturgia per la  comunicazione. Tutto, anche una scatola di piselli, è una drammaturgia adesso.

La drammaturgia è diventata un po’ come un virus. Sì, virale.

Ma, proprio per questo, dobbiamo trovare delle drammaturgie che resistano a questo mondo iper-discorsivo dentro il quale ormai ci troviamo.

Letture consigliate da Jean Daniel Magnin

Il cinema secondo Hitchcock

 François Truffaut

L'arte della scrittura

Robert Louis Stevenson

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