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DEL

CHIHAPAURA

DRA
MA
TURG?

Angela Dematté è drammaturga e attrice. Vincitrice con i suoi testi di alcuni premi tra cui Premio Riccione, Premio Scenario, Premio Golden Graal, Palmarès du theatre in Francia, Aquila d’oro alla cultura della città di Trento, Premio Hystrio Digital Stage, Premio Ubu progetti speciali. Nella sua ricerca indaga il rapporto tra spazio intimo e spazio politico. Lavora come dramaturg e autrice per i registi Renato Sarti, Sandro Mabellini, Valter Malosti e soprattutto per Andrea Chiodi. I suoi testi sono pubblicati in Italia, Francia, Svizzera, Germania ed Egitto. A partire dalla collaborazione con ISI foundation e JRC di Ispra inizia un dialogo complesso con la scienza come necessità di indagine sull’uomo futuro. 

Copia de Chi ha paura del dramaturg - POST IG.png

La prima domanda è, “semplicemente”, cos'è la drammaturgia?

La drammaturgia per me, fino a qualche anno fa, era un testo su cui si faceva uno spettacolo. Per formazione, la drammaturgia era questo per me: era la parola. Ora, dopo anni di lavoro, intendo la drammaturgia in modo più complesso: è colei che dà i tempi e struttura ciò che accade durante uno spettacolo. Per cui è fatta di tante componenti. Anche se, per me, rimane molto legata al testo e alla parola. 

In generale, la drammaturgia è la costruzione di ciò che deve essere spostato nell'animo dello spettatore, un'arte che permette di far accadere qualcosa dentro lo spettatore. Sono una serie di accadimenti, di scene, di emozioni che scandiscono l’indagine che stiamo facendo e che condividiamo con lo spettatore. L’indagine non deve essere spiegata: deve essere messa in gioco. Quindi, cercando una definizione migliore, forse la drammaturgia è il tentativo di trovare un gioco, la struttura di un gioco, un meccanismo che permetta allo spettatore e a chi fa lo spettacolo di elaborare ogni volta un contenuto o un dilemma. Per far sì che il gioco sia sempre vivo va trovata una struttura adeguata, una drammaturgia.

Tu hai lavorato sia come drammaturga che come dramaturg.

Soprattutto come drammaturga. Il dramaturg è un mestiere per me un po’ più complicato. Faccio fatica a gestire questo “stare al servizio”.

Cosa intendi?

Ti dirò cosa intendo io come dramaturg. Non so se ti sto dando una definizione giusta. Quel che ti dico credo di averlo imparato da Simona Gonella, che ha fatto da dramaturg per due lavori che ho fatto con Carmelo Rifici. Fare il dramaturg significa “stare a servizio” di qualche cosa che si sta formando. Dare una specie di argine, di contenitore, di specchio. Il dramaturg fa da cassa di risonanza, è colui/colei che ascolta. Che dice “aspettate un attimo, riflettiamo sulla percezione dello spettatore”. È colui/colei che ha a che fare non tanto con la stesura del testo, ma con ciò che il testo provoca e con ciò che viene prima del testo.

Ed è un bel mestiere, molto bello. Come tutti i mestieri che sono fatti di ascolto, può sembrare un mestiere inconsistente ma, in realtà, è ciò che permette che “quella cosa” emerga. Il dramaturg permette agli altri di andare in un flusso di ricerca. Ed è importante, soprattutto se si fanno delle indagini complesse. Perché è la figura che pone dei paletti: non solo “raccontiamo questa storia”, ma anche: “Dentro questa storia cosa stiamo facendo? Cosa stiamo raccontando?”. Il dramaturg è colui che ti dice “Tu stai percependo questo, ma l'immaginario collettivo, il pubblico, sta percependo un'altra cosa, quindi stai attento a quello che stai facendo”. E’ un lavoro delicato perché è come se dovessi fare un'elaborazione in compagnia dell'autore e del regista per permettere a loro di fare quella elaborazione.

Dove diresti che il lavoro del drammaturgo e quello del dramaturg si intrecciano e dove si separano?

Mi viene da dire: è abbastanza sano che stiano separati.

Sennò si rischia che l'autore che c'è dentro di noi si frustri. Perché quando faccio il dramaturg, non devo fare l'autore. La mia autorialità è a servizio, io sono a servizio del desiderio dell'autore.

Secondo me questa è un po’ la chiave.

Quando il mio desiderio va da una parte diversa da quella dell’autore io devo dire “No, questo è il mio desiderio”. La mia parte autorale è come se si dovesse sacrificare per fare un buon lavoro. 

È bene che i compiti siano abbastanza definiti. Ma questo vale sempre: quando scrivi un testo e poi vai in scena a provarlo, devi smettere di pensare al testo, di fare il drammaturgo. In quel momento devi fare l'attore o il regista.

Ma, insomma, facciamo un mestiere che è molto artigianale. Non c’è un metodo di lavoro preciso: costruisci il tuo e piano piano lo affini. Questo, credo, anche nel rapporto di lavoro tra regista e dramaturg. 

Ovviamente, lavorando insieme, ci si capisce. Si capisce cosa ha funzionato nel lavoro precedente e si può riprodurre. O cambiare.

Quanti drammaturghi italiani conosci?

Viventi? Che conosco di persona, penso, una decina. Che conosco di nome, probabilmente una trentina. Sì, comunque siamo sotto i cinquanta sicuramente, non di più.

Spesso, nel contesto teatrale italiano, ci si lamenta che poche persone vanno a teatro. Secondo te la scena teatrale contemporanea sta lavorando nel modo giusto per rimediare a questa situazione?

Fino a poco fa sentivo il rischio che ci fossero due poli di autori contemporanei: chi non si occupa per niente di comunicare al pubblico e si occupa, sostanzialmente, di fare la sua ricerca, il suo percorso personale, dove tirare fuori le proprie istanze… che magari diventano universali ma, sostanzialmente, se ne frega che lo siano. E poi, invece, c'è l'altro polo, che è chi fa una scrittura molto, molto pop, per cui si preoccupa solo che la messinscena funzioni, che il pubblico si diverta. 

Invece, adesso, vedo la vostra generazione, vedo persone che fanno ricerca seria e che hanno anche questa preoccupazione di arrivare al pubblico… per cui mi sembra che ci sia un movimento molto sano, in questo senso, dei nuovi autori. Semmai, sono i lettori, i programmatori che dovrebbero capire che c'è una nuova leva intelligente e che si pone il problema del pubblico, che vuole che la propria ricerca sia condivisa, che abbia un'eco, una risonanza…

Ma, semmai, è una domanda che farei a voi: quanto vi preoccupate che quello che scrivete sia alla moda?

Io alla vostra età non me ne occupavo per niente. Dopodiché, quando cominci a entrare nel sistema, cominci a dirti “Ah, per essere alla moda devo scrivere così”. E quella cosa è deleteria. Perché sì, la mia scrittura deve essere in dialogo con quello che c'è, ma la cosa più importante non è quanto la critica mi acclama, è quanto io rispondo alla mia ricerca e quanto la mia ricerca risuona. È chiaro che il desiderio che risuoni è anche il desiderio di essere amati; il punto è che poi devi amarti anche tu, con la tua sensibilità e le tue idee. Se pensi solo a voler piacere agli altri non ti ami. 

Se il successo mi arriva perché faccio una cosa di moda, dopo un giorno mi sono stufata. E la gente si è stufata di me.

Forse, c'è anche l'idea che la scrittura drammaturgica debba essere una scrittura per forza alta, per forza intellettuale. Ovviamente la drammaturgia è una forma d'arte, ma è anche una forma che deve essere viva, lì, in quel momento, su un palcoscenico. Il teatro è fatto sempre di queste due cose: della parte “alta” e delle viscere. C'è sempre il cervello e la pancia nel teatro, no? 

L'impressione che io ho è che fino a qualche tempo fa ci fosse molto cervello, molta pancia, ma le due cose non si riusciva a unirle. 

Adesso, mi sembra che voi lavoriate su questo. Io ho molte speranze nella vostra generazione.

E, secondo te, questa situazione cambierebbe se la figura del dramaturg fosse più presente?

Se avessimo delle persone in grado di farci da specchio in modo sano, non annullando il proprio desiderio, ma mettendolo al servizio dell'altro... sì, penso di sì. Perché avremmo qualcuno che ci accudisce. Quando sei in un processo creativo, sei fragile, hai bisogno di qualcuno che ti faccia da specchio e che provi a capire cosa stai cercando. Che non vuole la soluzione subito, perché non ce l'hai neanche tu, non ce l'ha nessuno. 

Allora se ti faccio da dramaturg- per come lo intendo io e per come, appunto, ho imparato da Simona- posso cercare di farti trovare la luce che ti indica la strada dentro questo labirinto, posso tenerti la candela. E tu, che non hai bisogno di tenere la candela, puoi usare le mani per toccare le mura del labirinto, per esempio, o cercare di intravedere qualcosa. Mentre io guardo con te, ti posso suggerire “Hai visto là che c'è quella cosa?”, ma poi quello che va a vedere bene che cosa c'è, sei tu. È un lavoro intenso, perché si è in ascolto continuamente. E come dramaturg ho veramente un sacco di compiti: talvolta è un compito da genitore, talvolta di figlio, talvolta di guardia, talvolta di colui che gioca con te, di compagno. È l'altro. Tu sei creatore, ma c'è sempre un altro con te. Non sei solo tu con le tue, scusate il termine, “masturbazioni mentali”. Le masturbazioni mentali non sono un problema, il problema è che rimani ritorto su te stesso. Come se avessi una spirale dentro di te che ti mangia, ti morde il fegato e che inquina tutta la tua riflessione. 

Ci deve sempre essere un altro. Perché l'altro ti depura, è come se ti facesse nascere. E allora, nel momento in cui nasci e cominci ad agire, c'è drammaturgia. Quando, invece, c'è la morte del ritorcersi, lì, non c'è drammaturgia. Lì c'è caos.

Sembra inutile la figura del dramaturg in Italia. E invece non lo è, non lo è per niente.

Se vogliamo andare in una direzione di ricerca vera, ricerca che però arrivi a tutti,  probabilmente dobbiamo istituirla, questa figura.

Ultima domanda: c’è drammaturgia fuori dal teatro?

Intendete in altri campi artistici? Beh, sì. La drammaturgia credo sia qualsiasi cosa che struttura una situazione.

È come se tu dovessi in qualche modo far sì che quello che ti sta ascoltando facesse un adeguato buon viaggio, un buon attraversamento, di qualcosa che stai indagando. E lo devi un pochino manipolare perché lo faccia. La manipolazione, l'autore la fa perché usa delle parole per convincere. Ma non si tratta di un “convincere” malevolo. E’ un: “Seguimi, perché io sto cercando qualcosa di profondo che può riguardare anche te”. Ovvero: diventiamo esseri umani nel profondo insieme, con questa indagine.

Però, la domanda da cui partivate era se c'è la drammaturgia fuori dal teatro. Sì, c'è drammaturgia, credo, in ogni cosa, in ogni piccolo dialogo che noi facciamo c'è drammaturgia, consapevole o inconsapevole. Si potrebbe analizzare ogni piccola nostra relazione. Qualsiasi cosa che duri più di un minuto probabilmente ha una drammaturgia.

Bisognerebbe che ci fosse un approccio intelligente alla drammaturgia, che si capisse quanto è importante, quanto può spostare, nel bene e nel male, l'asse del ragionamento e della vita. Però non c'è questa presa di coscienza.

E speriamo che arrivi, facciamo di tutto perché ci sia.

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Le scritture del reale. I quaderni del FIT

   Cue Press 2017

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